Ada Negri, Messa natalizia, in Finestre alte, Mondadori 1942 (1° ed. 1923), pp.289-92, 1923, Milano, Italia.
Quand’ero bambinetta d’otto o dieci anni, la mattina di Natale mia madre mi svegliava alle cinque per condurmi alla prima messa, nella Chiesa di Santa Maria del Carmine.
Festa grande era per me quella levata straordinaria; e quell’uscita avanti l’alba in compagnia della mamma; e quel senso di solennità natalizia, diffuso nell’aria come un profumo di resina e lauro bruciati.
Già, la sera della vigilia, penavo a lungo ad addormentarmi, nel lettone dove si dormiva in tre, io nel mezzo fra la mamma e la nonna. Che buio! Ma io vedevo la chiesa piena di lumi, e ne avevo le pupille abbagliate. Che silenzio!.. Ma io udivo il cantico dolce:
Gioite, sorelle è nato Gesù.
Il respiro della nonna non s’avvertiva nemmeno. Pareva morta: pareva non essere. A toccarla, era fredda. La mamma invece si voltava e rivoltava, senza requie: a tratti dalle sue labbra usciva un sibilo, che si trasformava in un gemito roco e dolente. Pene oscure, forse l’opprimevan nel sonno; e scomparivan poi con il mattino: sveglia, io non l’udivo che motteggiare e cantarellare. Qual era il nascosto dolore della mamma, e perché non si rivelava che di notte??..
Ma quella era notte di vigilia; e io non volevo dormire. In verità, il sonno m’era parso un trabocchetto cieco, nel quale tutti gli uomini cadevan press’a poco alla medesima ora, e dal quale uscivano il mattino, per che miracolo Iddio solo lo sapeva.
Non volevo dormire: era la notte santa. Mi figuravo nella fantasia un andar di pastori e di greggi lungo strade lontane; e, pei cieli, bianchi e leggeri voli d’angeli. Quegli angeli non eran forse stelle?.. Poi tutto spariva, un attimo: ed ecco, era l’ora d’alzarsi.
A lume di candela ci si lavava, ci si vestiva. Freddo? Non mi sovviene di aver mai, in quei tempi, patito freddo. E si che il fuoco s’accendeva solo per far la minestra: gelida era l’acqua nella catinella: molto umide le due stanze, situate a pianterreno. Sbarravo tanto d’occhi, e parlavo parlavo a voce alta, per dimostrare anche a me stessa ch’ero ch’ero ben sveglia. E via, nella strada, imbacuccate fino al naso, la mamma nel suo eterno scialle nero, io in un soprabitino di color rosso stinto, che m’era stato regalato smesso, non rammento più da chi: così stretto, che mi segava le ascelle.
Ancora buie le vie, naturalmente: chiuse le porte, i marciapiedi scivolosi per l’umidità, i fanali vacillanti nella nebbia, gruppi di gente allegra in cammino con noi: tutto m’era novità, meraviglia, gioia senza l’uguale.
Per meglio incominciare la festa, mia madre concedeva – lei così parsimoniosa- a sé ed a me il sibaritico lusso d’una tazza di ‘nero bollente’ al tavolino d’un caffeuccio, già aperto a quell’ora sull’angolo di via Roma.
Con lentezza sapiente assaporavo la bevanda per me preziosa, e mi riempivo le nari del suo aroma; non avrei voluto finire mai. Mi sentivo calda calda, con le vampe al viso; e leggerissima. L’atmosfera fumosa e satura di alcool, il banco rivestito di metallo bianco riflettente le fiammelle del gas, le bottiglie multicolori allineate sulle scansie eccitavano, illudendola con bizzarre allucinazioni, la mia pronta fantasia. Non era più il caffeuccio del Marescialli, era la grotta del Conte di Montecristo, colma di tutti gli smeraldi, i rubini, i topazi, gli ori e gli argenti del tesoro misterioso.
– Presto, presto – diceva la mamma, alzandosi snella e pagando al banco – presto, presto: che non s’arrivi a messa già incominciata!…
Ancora un tuffo nelle vie buie: ancora ammiccar di fanali pazienti e saggi: poi, l’aprirsi di una porta chiodata, il sollevarsi d’una pesante portiera: uno splendor di lumi, un’ondata d’incenso, un fremere, un piangere d’organo.
Beatitudine d’essere in chiesa! I miei sensi già vigili si placavano in quell’armonia calda e ricca di vermiglio e d’oro, di fiammelle, di riflessi, di sacerdoti dai movimenti nobili e ritmici nei càmici di trina, nelle pianete di damasco. Fra quelle bellezze potevo evadere dalla povertà di casa mia, dalla meschinità rigida e nuda delle aule scolastiche, dalla chiassosa volgarità della strada.
Cercava, la mamma, per farmi felice – a quella messa mattiniera di Natale – di portarmi a sedere proprio dinanzi al presepe, che era esposto a destra, sotto l’altare. A bocca semichiusa, con occhi estatici ammiravo il Bambino, contavo i pastori, i mandriani e le loro offerte, e rifacevo con la fantasia il viaggio dei Re Magi, sotto la guida della stella di Oriente.
Ma non potevo fare a meno di guardare, volgendo la testa, anche i quadri della Via Crucis, appesi lungo la navata centrale, e messi in luce dalle fiamme, dei molti candelabri, tra festoni rossi frangiati d’oro.
Il Nazareno che porta la croce, che cade sotto che sanguina alle nerbate dei Giudei, che lascia l’impronta del suo viso sul fazzoletto di Veronica, che spira sul Calvario, confitto alla croce, era pur stato il grassoccio Bambino riposante nella capanna di Betlemme, in grembo alla Madre.
Fra soli tre mesi, in primavera, il venerdì santo, sarei venuta a baciar la piaga del costato ad un terribile Cristo morto, di legno dipinto al vero, con veri chiodi infissi nei piedi e nelle mani.
Nel presepio natalizio, Egli aveva succhiato il latte della Madonna: e intanto i re Magi, sulle magnifiche cavalcature, gli portavano in dono oro, incenso e mirra.
Era nato, aveva patito, era morto per gli uomini – per me. Per me.
Cosi m’era stato insegnato. Quale dei due Gesù m’era più caro?.. Il Bambino raggiante o il Salvatore sanguinoso?.. E quale era il vero?..
Augusto, il prete officiava, assistito dai chierici, con precisi movimenti di rito in una lingua ch’io comprendevo senza saperla. Forse in un’altra età l’avevo parlata io stessa, poi me n’era stata tolta la memoria; ma non il senso; e la riconoscevo.
Alla campanella del sanctus, accompagnata da una fuga d’organo impetuosa come il volo di uno stormo di rondini nel vano delle navate, e dall’unanime curvarsi delle teste dei fedeli, rispondevo con l’ansioso tremito di tutto l’essere. Ansioso e pavido. Che cosa annunziava ?.. Quale apparizione si sarebbe mostrata in quel momento?.. Quale miracolo stava per compiersi?.. Forse l’Infante di pietra sarebbe ad un tratto divenuto di viva carne?..
Nulla. Il rito continuava. Il mio tremore interno man mano si attutiva sotto la pesante carezza dell’incenso. All’Ite missa est, che il sacerdote pronunciava con gravità solenne, quasi a benedirci per un lungo viaggio, tutte le donne in piedi cantavano in coro le litanie di Natale.
Oh, quei ripetuti Mater, Virgo, Mater, Virgo, quanto eran misteriosi e soavi al mio cuore! La mamma anch’essa cantava, piccola piccola nello scialle nero, con un viso di liberazione, con voce d’anima consolata: io no, per una mia nativa impossibilità al canto, che sempre mi durò nella vita. Ma dentro, sì: dentro di me salmodiavo, a note lunghe, piene e distese, di passione e di felicità, che superavan le altre e che io sola udivo. Ma ero io veramente, quella bambina?… O non è ella un’immagine della mia malinconia?… Nulla più resta del suo visetto scarno ed attento, né della mamma che non si lagnava mai della dura vita, e non piangeva se non nel sonno.
Anche oggi è vigilia di Natale. Voglio alzarmi domattina alle cinque, andare alla prima messa, adorare in ginocchio il Bambino Gesù nel presepio, a destra sotto l’altare. Ma non avrò nessuno con me. E, forse, non poserò neppure gli occhi sull’Infante addormentato in braccio a Maria: non vedrò, non guarderò, nella chiesa, che le Stazioni della Via Crucis.
Segnalata da Manu
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