Paolo Malaguti, La reliquia di Costantinopoli, romanzo, 2015, Vicenza, Italia. Neri Pozza.
Era quasi giunta l’ora sesta, e stavo per proporre di interrompere la lettura, per recarci a mangiare un boccone fuori dal monastero, quando Malachia si è voltato verso di me, con un’espressione inequivocabile sul viso, che stava a significare: “Ci siamo”. A testimoniare l’eccitazione del momento, il mio socio si è dimenticato di essere Filippo, il copista muto, e, battendosi la mano aperta sulla coscia, ha sibilato, nel silenzio assoluto dello scriptorium: “Alla bonora! Ghemo catà qualcossa!”
Nessuno dei due monaci lì nei pressi è sembrato cogliere quelle parole, ed è stata una fortuna, perché in caso contrario avremmo dovuto fingere che, per miracolo, il povero muto avesse improvvisamente ritrovato la parola. Malachia comunque, dopo quella esternazione malaccorta, si era subitamente immerso nella scrittura di quanto leggeva. Ogni tanto lo vedevo strizzare gli occhi, muovere le labbra, scuotere la testa, come cercando la parola adatta per rendere al meglio il senso delle pagine che tanto lo stavano interessando.
La mia impazienza è stata presto premiata con il primo foglio, fittamente scritto dalla grafia, ora più rapida e nervosa, del veneziano:
Quando i cavalieri franchi, giunti a Costantinopoli sulle navi veneziane, ebbero conquistato con il ferro e con il fuoco la Città, per la profonda avidità di ricchezze che li animava, essi si diedero al saccheggio per più giorni: profanando il più sacro dei luoghi, la chiesa dell’Hagia Sofia, i cavalieri franchi vi accumularono, portandoli a dorso di muro, immensi tesori di ogni sorta, che poi vennero spartiti tra tutti i soldati e i loro signori, secondo le loro misure e consuetudini.
Ora, si narra che, dopo l’inizio dei saccheggi, un cavaliere franco, il cui nome fu Boemondo d’Aquitania, fosse il primo a entrare, con un gruppo di suoi armati, nella santissima cappella della Vergine, detta del Faro, nel Gran Palazzo.
Qui gli imperatori, da tempi immemorabili, avevano piamente raccolto le più sante reliquie dell’intera cristianità. Come riportato dallo skeuphylax della chiesa, Nicola Mesarite, dieci, come i comandamenti di Dio agli uomini, erano le santissime reliquie lì conservate, ossia: i chiodi della crocifissione; la santissima corona di spine; la canna che venne data in mano a Cristo, in segno di dileggio; il drappo, detto Mandylion, che reca impressa, ripiegata in quattro e quattro, la santa effigie di nostro Signore; la spugna da cui Cristo bevve acqua e aceto; la lancia che trafisse il suo costato; il calice con cui il Cristo bevve nell’Ultima Cena; un frammento del pane non lievitato dell’Ultima Cena; la tunica purpurea che indossò il Salvatore durante la sua Passione; e, su tutte le altre, il legno della Croce.
A quanto si sa, il Mandylion, particolarmente caro agli Imperatori, era stato traslato da tempo presso le Blancherne. Questo ne sancì la perdita per la Città, poiché, come avrò modo di dire, non poté godere della stessa sorte delle altre reliquie, e, a quanto mi risulta, oggi è conservato in una cittadina franca, dove è stato portato dal cavaliere Ottone de la Roche.

Segnalato da Manu
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